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Riproponiamo l’articolo di Eva Rigonat (medico veterinario, SDE Italia) pubblicato sul sito “Il punto. confronti su medicina e sanità“.


La maggior parte dei dati e degli studi scientifici ci dicono che gli allevamenti intensivi hanno sempre un impatto ambientale: non necessariamente negativo. Gli allevamenti intensivi, invece, hanno sempre un importante impatto negativo sull’ambiente, con ripercussioni sia dirette che indirette sulla salute umana. A supporto di questa affermazione ci sono numerosi documenti e studi di organizzazioni internazionali (l’Agenzia mondiale per l’alimentazione – Fao, l’Agenzia delle Nazioni Unite sull’ambiente – Unep e il Gruppo di lavoro dell’Onu sui cambiamenti climatici – Ipcc) e di organizzazioni nazionali come l’Istituto per la protezione e la ricerca ambientale – Ispra. Andando, quindi, ad analizzare i suddetti documenti possiamo individuare le enormi criticità legate agli allevamenti intensivi, ovvero quel tipo di allevamento che prevede la custodia, la crescita e la riproduzione di un numero molto alto di animali in spazi ristretti e confinati, spesso parzialmente chiusi.

I danni diretti e indiretti

Gli allevamenti sono responsabili del 18 per cento delle emissioni di gas climalteranti a livello mondiale. In Unione europea, grazie alla normativa vigente, tale valore scende al 7,1 per cento. Tra questi gas, oltre all’anidride carbonica, gli allevamenti producono protossido d’azoto e metano che sono ancor più pericolosi dell’anidride carbonica stessa.

Il 94,2 per cento delle emissioni in Italia di ammoniaca (NH4) provengono dalla zootecnia. L’ammoniaca, a sua volta, reagisce con l’acido nitrico e con l’acido solforico (l’acido solforico è presente sia in natura che prodotto dall’industria e l’acido nitrico è presente nello smog fotochimico) portando alla formazione rispettivamente di nitrato d’ammonio e solfato d’ammonio, i due sali inorganici maggiormente presenti nel particolato sottile (PM10). Il PM10, è responsabile di diverse patologie. Il PM10, è responsabile di diverse patologie (vedi figura) [1].

Tutti gli animali allevati, con metodo intensivo o meno, consumano risorse idriche. L’imponenza, tuttavia, della produzione industriale di carne, al netto dell’acqua che ritorna nell’ambiente, rende ormai insostenibile questo consumo.

L’occupazione delle terre per la mangimistica animale è tra i principali fattori responsabili degli insostenibili carichi inquinanti nelle risorse d’acqua del pianeta con nutrienti, fitofarmaci e sedimenti

In Europa il 70 per cento delle terre della superficie agricola è destinata a produrre mangimi per gli allevamenti con danno alla biodiversità per svariate ragioni, tra cui la deforestazione. Il fabbisogno coinvolge anche lo sfruttamento di terre in paesi non occidentali, con danni immensi alle popolazioni locali, private del loro habitat tradizionale.

Oggi, per soddisfare le richieste degli allevamenti intensivi è necessario coltivare il cibo per gli animali su terreni che potrebbero produrre alimenti per l’uomo con un indice di conversione assolutamente sfavorevole. Si pensi che per produrre, ad esempio, un chilogrammo di carne bovina servono circa 18 chilogrammi di vegetali che potrebbero diventare alimento per uso diretto dell’uomo.

Per effetto delle attività dell’uomo, che stanno distruggendo gli habitat naturali per convertirli in terreni agricoli a sfruttamento intensivo, la varietà di animali e piante è scesa a livelli pericolosi.

La biodiversità è la nostra ricchezza più importante: milioni di piante, animali e microrganismi, che costituiscono la nostra biosfera. Questa varietà non si riferisce solo alla forma e alla struttura degli esseri viventi, ma include anche la diversità intesa come abbondanza, distribuzione e interazione tra le diverse componenti del sistema. Anche pesca e acquacoltura non sono da tralasciare in questa disamina per i danni generati agli ecosistemi marini e acquatici.

L’alta concentrazione di animali in uno stesso ambiente favorisce lo sviluppo di malattie, comprese quelle che dagli animali possono passare all’uomo (la cosiddetta zoonosi). È di questi giorni la nuova allerta dell’Organizzazione mondiale per la salute animale e del mondo della scienza sul rischio legato al passaggio dell’influenza aviaria dagli uccelli all’uomo [2,3]. Le condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi richiedono per il mantenimento della loro salute un alto intervento di medicalizzazione, in particolar modo con un massiccio utilizzo di antibiotici, contribuendo al fenomeno dell’antibiotico-resistenza.

Scegliere tra sostenibilità e profitto

Le grandi argomentazioni a favore della sopravvivenza degli allevamenti intensivi riguardano principalmente due aspetti: il fabbisogno alimentare, attuale e futuro, e la loro virtuosità in Europa.

In tema di fabbisogno alimentare è bene fare un distinguo tra sano e indotto. Se ci riferiamo ad un bisogno alimentare sano, che rispetti una corretta piramide alimentare, l’Unione europea ha già dimostrato che nel 2050 i fabbisogni alimentari del nostro continente potrebbero essere soddisfatti dall’agricoltura biologica [4]. Anche a livello mondiale l’Organizzazione internazionale per l’alimentazione definisce in questo modo le diete sostenibili sufficienti per alimentare la popolazione: “Le diete sostenibili sono diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla
sicurezza alimentare e nutrizionale nonché a una vita sana per le generazioni presenti e
future. Le diete sostenibili concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e
degli ecosistemi, sono accettabili culturalmente, economicamente eque e accessibili,
adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e, contemporaneamente, ottimizzano
le risorse naturali e umane [5].”

Riguardo al virtuosismo delle aziende europee è evidente che, anche grazie ad una cultura gastronomica come quella mediterranea in cui la condivisione del cibo è un momento di convivialità e aggregazione sociale, vi sia un’alta presenza non solo di imprenditoria consapevole ed etica ma anche di popolazioni attente e legislatori stimolati che hanno indirizzato le scelte politiche, facendone un continente all’avanguardia. Nel 2021, l’Oms ha emanato nuove linee guida sull’inquinamento atmosferico, riconoscendo che gli studi scientifici del 2005, data di pubblicazione delle precedenti linee guida, hanno dimostrato come siano ancora da abbassare i limiti minimi considerati dannosi per la salute umana.

Sull’onda di queste nuove conoscenze, l’Europa si appresta a rivedere non solo la normativa sulla qualità dell’aria, con limiti più severi, ma anche quella sulle emissioni industriali. In questi impianti legislativi gli allevamenti intensivi sono riconosciuti come inquinanti e vengono fortemente ridimensionati anche se non ancora vietati. L’auspicio è che le proposte dell’Unione europea vadano in porto, che siano rispettate e che i cittadini, scegliendo di cambiare la propria alimentazione, mandino un segnale forte di consapevolezza e partecipazione.

Bibliografia

1. Thurston GD, Kipen H, Annesi-Maesano I, et al. A joint ERS/ATS policy statement: what constitutes an adverse health effect of air pollution? An analytical framework. Eur Respir J 2017; Jan 11.
2. Statement on avian influenza and mammals, Woah org.
3. Capua I, Ora dobbiamo occuparci dell’aviaria, Il Corriere della sera, 25 feb 2023.
4. Billen G, Aguilera E, Einarsson R, et. al., Reshaping the European agro-food system and closing its nitrogen cycle: the potential of combining dietary change, agroecology, and circularity, ONE EARTH, 2021.
5. Rapporto finale. Simposio scientifico internazionale “Biodiversità e diete sostenibili uniti contro la fame”. Fao, Roma 3-5 novembre 2010.

Per chi vuole approfondire

La non etica degli allevamenti 

Gli allevamenti intensivi soddisfano ancora gran parte della richiesta mondiale di proteine animali, ma sono insostenibili da un punto di vista non solo ambientale ma anche etico. In questa tipologia di allevamenti gli animali vivono in una condizione artificiale di sofferenza. “Il metodo che prevede l’utilizzo di animali su grande scala numerica, stipati in poco spazio e con ritmi di produzione accelerati rispetto al naturale decorso della crescita animale e della naturale capacità produttiva”, si legge su Kodami. “Questo metodo d’allevamento si sviluppa intorno agli anni 60 del secolo scorso, di pari passo all’aumento della richiesta di consumo di carne e della produzione di antibiotici, che hanno permesso di sottrarre gli animali al pascolo e ammassarli in gran numero in spazi ristretti preservandoli però dalle malattie contagiose. (…) Numerose questioni etiche mettono in discussione questa pratica. In primis, tra tutte, la questione del benessere animale. Nell’era delle lotte per il riconoscimento dei diritti degli animali come esseri senzienti è questionabile che gli animali vivano ammassati o, peggio ancora, rinchiusi in gabbie e non possano esprimere i normali comportamenti che caratterizzano ogni singola specie e ogni singolo individuo all’interno della sua specie. La crescente consapevolezza dei consumatori rispetto alle modalità d’allevamento degli animali sta portando a un cambio delle abitudini alimentari sempre più orientato verso scelte vegetariane, vegane, o onnivore cruelty-free”.

Veganesimo e vegetarianesimo 

Con il termine “veganesimo” si intende la scelta di non aderire allo sfruttamento e all’uccisione degli animali non umani che le attuali condizioni di vita nei paesi sviluppati comportano in vari ambiti. Con il termine “vegetarianesimo” si indica, invece, la scelta alimentare che esclude la carne dalla dieta quotidiana. In entrambi i casi – scrive Elena Nave nel “Lessico di bioetica” – le scelte alimentari onnivore vengono sottoposte a vaglio critico e analizzate sotto la lente dell’etica per indagarne la sostenibilità. 


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