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Commento al report SIMA/Unibo/Uniba 

 

A livello globale, ogni anno il particolato atmosferico (PM – particulate matter) è responsabile di un numero di decessi pari a circa 8 milioni. Nelle nazioni in cui vengono implementate misure concrete di contenimento del PM, si stima che i benefici economici di questi provvedimenti ambientali siano fino a 30 volte più alti dei costi; ciò senza tenere conto dei vantaggi sociali dovuti alla drastica riduzione di morti premature e del notevole ridimensionamento del carico di malattie acute e croniche nelle comunità umane. Buona parte dell’informazione epidemiologica disponibile sui rischi associati al PM si concentra sulle esposizioni di breve termine, e indica che la ricaduta di salute pubblica, in termini di effetti acuti, può interessare l’intera popolazione esposta. Vale la pena osservare che, oltre a incrementare il rischio associato all’esposizione diretta ai contaminanti atmosferici, l’inquinamento dell’aria alimenta il global warming e, in modo indiretto, amplifica gli effetti dannosi per la salute umana, come documentato dall’aumento di mortalità per alcune malattie associate alle ondate di calore e ad altri correlati ambientali del cambiamento climatico. Il problema assume toni decisamente preoccupanti quando i picchi di inquinamento atmosferico da PM (e altri contaminanti) provocano un aumento di decessi prematuri, principalmente a carico della popolazione anziana. Il fenomeno, noto come harvesting, è da tempo al centro di un dibattito scientifico di non poco conto, dal momento che l’esposizione ad alte concentrazioni di inquinanti atmosferici, oltre a essere pericolosa per gli individui più vecchi, può rivelarsi deleteria anche per altri sotto-gruppi della popolazione affetti da problemi di salute. L’argomento viene spesso affrontato in termini di “fragilità” di alcuni gruppi sociali che, essendo colpiti da una o più patologie croniche (comorbilità), evidenziano una maggiore vulnerabilità, rispetto alla popolazione generale, ai possibili effetti dell’inquinamento atmosferico. Il fenomeno è ben noto ai fisiologi e dipende dal fatto che i soggetti colpiti da una patologia di una certa gravità (per esempio una grave patologia cardiovascolare o tumorale o infettiva) sperimentano una condizione generale più vicina ai limiti fisiologici di resistenza, e come tali sono più vulnerabili ai fattori di stress e agli insulti provenienti dall’ambiente esterno.

Anche se nella comunità scientifica l’impatto sanitario dell’inquinamento atmosferico viene riconosciuto in modo quasi unanime, le attuali evidenze sugli effetti del PM in popolazioni suscettibili, o in sottogruppi fragili, non possono essere definite esaurienti. Un problema molto serio riguarda la notevole eterogeneità degli assunti, delle metodologie e dei risultati che caratterizzano gran parte degli studi realizzati in questo campo. Ciò determina inevitabilmente una sostanziale mancanza di consenso in merito all’individuazione dei fattori che influenzano significativamente la fragilità all’interno delle e tra le popolazioni. Malgrado la valutazione della vulnerabilità agli inquinanti atmosferici sia giudicata da autorevoli agenzie ambientali un’area di ricerca prioritaria, per la sua importanza in sanità pubblica, a tutt’oggi questo settore dell’indagine biomedica viene inspiegabilmente trascurato. Più in generale, trascurare le fasce deboli della popolazione produce esiti visibili in queste settimane difficili in cui rileviamo un inatteso e impressionante aumento della mortalità dei soggetti fragili per l’epidemia di SARS-CoV-2.

REPORT SIMA: INQUINAMENTO DELL’ARIA E SARS-CoV-2

Nei giorni scorsi ha ricevuto ampia diffusione un position paper dal titolo: “Relazione circa l’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione”, redatto e messo in circolazione dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA).

Senza qui entrare in troppi dettagli e valutazioni tecnicistiche, che richiederebbero familiarità con gli strumenti e le regole della ricerca in medicina di popolazione e sanità pubblica, viene proposta una riflessione critica sui contenuti del documento.
Il report avanza sostanzialmente l’ipotesi che l’ampia e rapida diffusione del virus SARS-CoV-2 verificatasi nelle scorse settimane in alcune regioni del Nord Italia sia stata determinata, in parte o in larga parte, dalla presenza/permanenza del coronavirus nel particolato atmosferico. L’idea sottesa è che l’inalazione degli inquinanti atmosferici (aerosol) siano di per sé in grado di trasferire l’infezione virale dall’aria agli esseri umani.

L’ipotesi non è nuova ma è certamente poco diffusa in ambiti non scientifici. È interessante notare che in effetti gli aerosol atmosferici possono veicolare, oltre a una serie di composti chimici pericolosi, anche microrganismi e altri materiali di origine biologica (batteri, spore, pollini, virus, funghi, alghe, particelle vegetali, frammenti di peli/cute di animali, residui fecali di allevamenti, etc). Questo ambito interessante della ricerca viene definito Aerobiologia e rappresenta un settore della conoscenza scientifica che ha dato ottimi contributi alla comprensione di alcuni fenomeni dell’ambiente atmosferico.

Ma procediamo per punti: 

Punto 1) Un primo rilievo che si può mettere subito in conto è che, pur riconoscendo al PM la capacità di veicolare particelle biologiche o pseudo-biologiche come quelle citate sopra, il fatto che i virus, e nello specifico i coronavirus, possano mantenere intatte le loro caratteristiche morfologiche e le loro proprietà infettive anche dopo una permanenza più o meno prolungata nell’ambiente outdoor è tutto da dimostrare; quindi, almeno per il momento, si tratta di una semplice ipotesi in attesa di conferme sperimentali convincenti, niente di più. In letteratura esistono vari lavori che confermano la capacità dei virus, incluso SARS-CoV-2, nel mantenere intatte le proprie caratteristiche all’interno delle droplets (goccioline) di saliva intrappolate negli aerosol di un ambiente indoor nel quadro di un contesto sperimentale. Tale evidenza viene confermata anche da un’eccellente indagine pubblicata proprio in questi ultimi giorni su una prestigiosa rivista scientifica del settore biomedico (New England Journal of Medicine). Anche in questo recentissimo ed esauriente studio, tuttavia, nessun riferimento viene adombrato in merito al fatto che il coronavirus possa mantenere la stessa stabilità nell’aria outdoor, il che confermerebbe l’estrema labilità dei virus quando si trovano ad affrontare pressioni ambientali come le variazioni di luce, di temperatura, di umidità, di correnti e di tutte quelle variabili di contesto che fissano una differenza sostanziale tra l’ambiente aereo outdoor e l’ambiente aereo indoor, per non parlare dell’ambiente naturale ideale di tutti i virus, ossia l’ambiente intra-cellulare (i virus sono i parassiti più spinti tra tutti i parassiti conosciuti).

Punto 2) Per mostrare la bontà della loro ipotesi, cioè che sussista una relazione tra aumento del PM atmosferico e aumento dei casi di contagio, gli Autori ricorrono all’impiego della procedura di correlazione statistica tra due variabili. Ciò significa verificare che al valore di una variabile (il valore di PM misurato in microgrammi per metro cubo d’aria) corrisponda un aumento proporzionale del valore dell’altra (il numero dei contagi). Se i valori delle due variabili cambiano proporzionalmente nello stesso senso si ha una correlazione diretta (coefficiente = +1), mentre se i valori cambiano proporzionalmente in senso contrario, (ossia uno in senso positivo e l’altro in senso negativo) si ha una correlazione inversa (coefficiente = -1). Quando il coefficiente di correlazione è pari o prossimo a 0 non vi è correlazione.
Nel report SIMA, gli Autori rilevano un coefficiente pari a 0,98, il che indica una forte relazione diretta tra le due variabili. Attenzione però, nel cercare una vera correlazione tra due grandezze ed eventualmente trarne la conclusione di un eventuale nesso di causa-effetto tra esse, la relazione ipotizzata non deve essere casuale, nel senso che deve avere una plausibilità già verificata o da verificare su altri piani. In pratica, la correlazione statistica non è sufficiente da sola ad assicurare il nesso ma occorre anche dell’altro. Tale precisazione è fondamentale. Infatti, una relazione statistica tra due variabili può occultare una relazione del tutto fortuita: in questo caso si dice che la correlazione è “spuria”, ossia individua un nesso che nella realtà non esiste. Del resto la statistica, che costituisce uno strumento indispensabile per indagare i fenomeni naturali, è semplicemente la messa in pratica di principi matematici utili a dare forma ai dati quantitativi, non una prova di un fatto che accade nella realtà. In pratica, oltre a una relazione statistica occorre determinare anche una plausibilità empirica, vale a dire una relazione ontologica tra i due fenomeni osservati. Un esempio banale ma piuttosto efficace di relazione spuria può essere visto esaminando le vendite di gelati in una località di mare. Le vendite sono più alte quando anche il tasso di abbronzatura delle persone è più alto, per cui tra le due variabili si potrebbe configurare una relazione statistica quasi perfetta. Ma affermare che le vendite di gelati causano l’abbronzatura, o viceversa, implicherebbe una correlazione spuria tra i due fenomeni, perché tra essi non è verificabile alcun nesso reale, e nemmeno una semplice “associazione”. Un lungo periodo di alta pressione con giornate soleggiate potrebbe essere l’unica vera causa dei due fenomeni osservati (gelati venduti e tasso di abbronzatura). Nel caso specifico, l’alta pressione sarebbe un esempio di variabile nascosta, cioè una variabile non presa in considerazione dall’osservatore. Bisogna quindi mettere in conto la possibilità che i risultati descritti dagli Autori siano viziati dall’avere trascurato altre ipotesi di lavoro più convincenti.

Si veda in fondo una figura che mostra una correlazione praticamente perfetta (coefficiente correlazione vicinissimo a 1) ma spuria … per non dire surreale!

ALCUNI PASSAGGI SALIENTI

Per non dilungarci troppo, prendiamo in esame tre passaggi salienti del report e vediamone i punti critici alla luce anche dei rilievi segnalati sopra, che, a giudizio di chi scrive, evidenziano la debolezza scientifica del documento:

A): “….Tale analisi sembra indicare una relazione diretta tra il numero di casi di COVID-19 e lo stato di inquinamento da PM10 dei territori, coerentemente con quanto ormai ben descritto dalla più recente letteratura scientifica per altre infezioni virali”.
OBIEZIONI: gli Autori usano correttamente l’espressione “sembra indicare”, perché di fatto l’analisi non è di per sé sufficiente a indicare alcunché, fermo restando che per la maggior parte delle infezioni virali esistono descrizioni della relazione tra inquinamento e aumento dei casi di malattia che sono di natura molto diversa rispetto a quella descritta nel report.

B): “…. Le curve di espansione dell’infezione nelle regioni (Figura 3) presentano andamenti perfettamente compatibili con i modelli epidemici, tipici di una trasmissione persona-persona, per le regioni del sud Italia mentre mostrano accelerazioni anomale proprio per quelle ubicate in Pianura Padana in cui i focolai risultano particolarmente virulenti e lasciano ragionevolmente ipotizzare ad una diffusione mediata da carrier ovvero da un veicolante”.
OBIEZIONI: qui gli Autori esprimono un’opinione personale del tutto legittima ma poco realistica. Infatti le curve epidemiche presentate, in realtà, sono perfettamente in linea con un contagio persona-persona. La diversa accelerazione che si rileva negli andamenti dei contagi (soprattutto nei giorni 6-7-8 febbraio 2020) e che in modo differente riguarda tutte le Regioni indicate, non solo quelle del NORD, deve essere addebitata semplicemente alla densità di popolazione che nelle Regioni del NORD è decisamente più alta che in quelle del SUD, oltre al fatto che anche il numero di spostamenti è più alto al NORD che al SUD. Trascurare questi due fattori fondamentali (densità di popolazione e intensità degli spostamenti) significa trascurare le dinamiche di base delle epidemie infettive. Non guasta ricordare infine che anche alcuni fenomeni contingenti possono essere alla base della rapida diffusione di una malattia infettiva, e ciò vale soprattutto quando si ha a che fare con una malattia completamente nuova come COVID-19. 

C): “…. Tali analisi sembrano quindi dimostrare che, in relazione al periodo 10-29 Febbraio, concentrazioni elevate superiori al limite di PM10 in alcune Province del Nord Italia possano aver esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia in Pianura Padana che non si è osservata in altre zone d’Italia che presentavano casi di contagi nello stesso periodo. A questo proposito è emblematico il caso di Roma in cui la presenza di contagi era già manifesta negli stessi giorni delle regioni padane senza però innescare un
fenomeno così virulento”
.
OBIEZIONI:
anche qui gli Autori esprimono una semplice convinzione personale. Basti dire che Milano (area metropolitana) ha una densità di popolazione che è 2,5 volte quella di Roma (area metropolitana), evidenziando 2.063 abitanti/Km2 contro 810 abitanti/Km2. Oltretutto, se si escludono i primi due casi sporadici (due turisti cinesi ricoverati immediatamente presso il Centro di Malattie Infettive Spallanzani), a Roma l’infezione è probabilmente arrivata in un secondo tempo. Vale tra l’altro la pena rilevare che non si capisce bene quale sia l’oggetto che viene contabilizzato nel report SIMA (soggetti malati? soggetti asintomatici positivi? entrambe le tipologie di soggetti?), il che, in assenza di uno screening dei casi positivi non è affatto secondario, dal momento che in tale ambito si sono registrati e ancora si registrano pratiche e criteri diversi.

CONCLUSIONE

In conclusione, gli Autori del report forniscono informazioni di letteratura e dati raccolti ad hoc non sempre chiari. Allo stato dei fatti, il report può essere usato unicamente come stimolo per verificare le ipotesi descritte. In nessun modo, comunque, questo documento può essere ritenuto uno studio scientifico o un monitoraggio esauriente a spiegare le dinamiche responsabili della rapida diffusione di SARS-CoV-2 in Nord Italia nelle ultime settimane. Fermo restando quanto rilevato sopra, la necessità segnalata dagli Autori di una sensibile riduzione dell’inquinamento atmosferico e, si potrebbe aggiungere, di ogni forma di deterioramento ambientale, è assolutamente condivisibile. Avere cura dell’ecosistema significa preservare con tutti gli strumenti disponibili quel patrimonio irrinunciabile di ricchezza che garantisce salute, cibo e benessere all’intera umanità. Ogni comunità capace di guardare al proprio futuro deve essere capace di instaurare un rapporto con l’ambiente fondato sulla sostenibilità, come primo presidio per una vera prevenzione del rischio sanitario e come diritto a una vita dignitosa esteso a tutti gli esseri umani e non.

Carlo Modonesi, Comitato scientifico ISDE Italia(International Society of Doctors for the Environment)   

 

 

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